Gianfranco Gentile

 
 

Pellegrino intellettuale                                                                                                              Nadia Melotti


Gianfranco Gentile è un artista che si coglie nel “caso”, immerso, sommerso da molteplici espressioni creative; è pittore, è musicista, è progettista, è pellegrino intellettuale; è ancora ricercatore e manipolatore di immagini sottratte all’anonimato multimediale di internet. La sua formazione artistica nasce a Firenze, alla facoltà di Architettura. Crogiuolo di esperienze estetiche, l’università si trasforma in un laboratorio di ricerca nell’ambito delle arti dove l’artista matura una accentuata sensibilità alla composizione. E’ forse per questo che l’occhio di Gentile riconduce la percezione della realtà ad elementi architettonici minimali; è uno sguardo attento il suo, che penetra silenziosamente l’incurante consuetudine dei luoghi. Gli interni diventano archetipi, strutture geometriche che liberano la visione nelle sue forze essenziali. Così, la scala dei Lamberti diventa/è una struttura a chiocciola che sprofonda nello spazio illusionistico della spirale; se da una parte evoca lo strutturalismo, dall’altra si prolunga nel tempo fino a diventare natura. L’illusione e la meraviglia non son forse ancor prima natura? Diceva Cezanne “la natura è più in profondità che in superficie” ed è lì, nella struttura che si coglie qualcosa di eterno. Gentile ci obbliga a questa osservazione attenta delle nature/architetture spostandosi nel tempo ma cogliendo in ognuna i ritmi compositivi, il rapporto pieno/vuoto, il dinamismo delle linee che si prolungano oltre la superficie dipinta. Le sue opere più recenti spostano l’attenzione su prodotti culturali di sopravvivenza; sono reperti archeologici di una civiltà così vicina, quella industriale, così lontana per generazioni di offuscata memoria. Queste opere, sempre rigorosamente dipinte con una tecnica a pastello di estrema precisione sono totem, parti meccaniche in disuso abbandonate all’indifferenza o pronte per un riciclo funzionale al mercato. Questi oggetti, colti nella loro plasticità monumentale sono tragicamente presenti, sembrano ingranaggi solidi ed inespugnabili come antiche macchine da guerra. Il materiale di supporto si presenta fragile, cartone riciclato,  povero come l’alienante isolamento degli oggetti. Eppure sta in questa ambivalenza di forza e fragilità l’armoniosa riuscita dell’incontro dove il supporto non è solamente il luogo dell’evocazione ma diventa materia espressiva che si trasforma in luce e colore.





Archeologie Industriali                                                                                                                   Patrizio Peterlini


"Canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri incendiati da violente lune elettriche, (…) le officine appese alle nuvole pei contorti fili dei loro fumi, i ponti simili a ginnasti giganti che scavalcano i fiumi, (…)

le locomotive dall'ampio petto, che scalpitano sulle rotaie, come enormi cavalli d'acciaio imbrigliati di tubi (…)

dal Manifesto Futurista di F.T. Marinetti


Come è lontano, nell'opera di Gianfranco Gentile, quel fervore, quell'esaltazione della meccanica che aveva così fortemente contraddistinto il futurismo e che ha così a lungo influenzato il novecento. E come è altresì lontana la mitologia fantascientifica, popolata da macchine antropomorfe, costruita su un immaginario carico dei fantasmi di schiavitù, dominazione e sfruttamento che trova in HAL, il computer astronave di "2001 Odissea nello Spazio" la sua massima espressione.

Si, tutto questo è lontano, è archeologia, e come tale ci è presentato da Gianfranco Gentile nel suo lavoro di scavo della memoria. Reperti che ci restituiscono tutta una civiltà, una organizzazione sociale, una struttura di pensiero che riecheggia nel lavoro di Gentile, ma che non è mai messa in primo piano, mai sbandierata.

In questo i lavori di Gentile mostrano un particolare pudore. Sono molto raffinati, puliti, eseguiti con padronanza assoluta del mezzo espressivo e grande tecnica. Sono lavori fortemente comunicativi ed evocativi, ma ciò che soprattutto sorprende è che non concedono nulla alla retorica positivista o luddista legata alla evoluzione della meccanica.

E' un nuovo immaginario, quello che ci viene proposto dall'artista veronese. Un immaginario semplice, fatto di piccole cose, di particolari, di oggetti dismessi e polverosi. Sono oggetti forse inutili, sicuramente inutilizzati, spesso arrugginiti e cadenti, ma assolutamente per niente decadenti.

Le macchine di Gentile sono vecchie signore, ancora belle per la memoria che ci restituiscono. Sono ricordi impreziositi da una patina di nostalgia. Reperti, metodicamente catalogati ed inseriti in una serie con l'amore e la cura che contraddistinguono gli album di fotografie di famiglia. Strane perle di una sorprendente collana.

L'occhio di Gentile ci restituisce il dettaglio, il particolare di un vecchio gioiello che riemerge da uno scavo. L'irregolarità dell'avvitamento di un bullone, la semplicità delle linee che costituiscono la struttura massiccia del macchinario, il dettaglio della dentatura di un ingranaggio, in buona sostanza la sorpresa estetica del particolare. Sono queste le pietre angolari della pittura e della poetica di Gentile.

Ma soprattutto è un lavoro che non indugia in psicologismi e/o barocche macchinazioni teoriche.

La macchina ha sicuramente rappresentato per tutto il secolo scorso il doppio dell'uomo, la sua anima ma anche il suo incubo. Ha catalizzato le speranze di generazioni di esseri umani, ne ha materializzato il loro fantasma autodistruttivo, ha offerto la base per grandiose e utopiche rivoluzioni, sia politiche che sociali, ha fatto da riferimento a molte speculazioni filosofiche. Ma in queste opere, che a un primo sguardo superficiale sembrano inserirsi in questa serie, tutto questo non trova spazio.

Le macchine di Gentile sono esattamente ciò che si vede: decorazioni di un involucro, decorazioni di scarti d'imballo. Vecchi paramenti di una altrettanto vecchia, vetusta e superata civiltà industriale. E' nella scelta del supporto che l'autore ci offre la chiave di lettura fondamentale di tutto il suo lavoro di ricerca e di archiviazione.

Le macchine non sono altro che vecchie scatole vuote. Imballi che hanno certamente contenuto tutto l'immaginario sviluppato nel secolo scorso, ricco di proiezioni antropomorfe, di tutte quelle suggestioni che ho ricordato, ma che attraverso le visioni di Gentile perdono tutte queste sovrastrutture per offrirsi semplicemente come belle immagini.

Un bello che indugia sulla forma e che, attraverso l'uso di colori terrosi e dei tagli di luce, si ricollega alla più grande

e secolare tradizione delle nature morte. Ma che grazie a questo sguardo disincantato, che restituisce all'oggetto rappresentato la sua immediata fisicità, ci guida nella spogliazione dell'ideale. Della macchina non resta che una pura forma geometrica, addolcita dalla nostalgia e dal ricordo di un tempo lontano, ma pur sempre pura forma.

Ed è in questo gusto della forma che si avverte l'unico collegamento con la memoria personale dell'artista, con la

sua vita privata e professionale, che lo vede impegnato nella realizzazione di scenografie e di oggetti d’arredo. Quelle rappresentate sono forme che, nonostante la loro fisicità pesante e ferrosa acquistano, grazie ai sempre sorprendenti punti di vista adottati da Gentile, una leggerezza ed una spiritualità stranianti.





Da un peso specifico all'altro o degli specifici pesi....                                                    Marco Gradi - La Tenda Rossa


Mi chiedo quanto peserebbe la Tour Eiffel se fosse riprodotta in scala 1:1 su cartone!

Quanto: ogni trave, bullone, vite debitamente oliata o ossidata o ancora.... restaurata?

Quale il suo carico di rottura?

Quante case, città, cattedrali in cartone con le sembianze di un peso specifico simile alla pietra, al ferro, al vetro.

Quante automobili, treni, navi, aerei, tutto tutto tutto in cartone o nel cartone.

Mimesi?

Forse... se mimesi vuol dire imitazione della realtà e la realtà una pallida imitazione del mondo delle idee.

Si le idee... o l'idea.

Accantoniamo per un attimo il recupero di un'archeologia industriale; i "Tempi Moderni" alla Chaplin, le nostalgie ferrose, dove la ruggine e la polvere mimano la fine del sogno occidentale di una lontana  rivoluzione industriale oramai al capolinea.

L'idea di Gentile è quella di usare il cartone come "Medium" del mondo.

Far diventare ferro il cartone, o veder ferro nel cartone. Trascrivere con la pazienza

di un monaco il carattere di materiali opposti per vocazione.

Ossidi, vernici, cemento, catrame, olii riportati a "secco" su contenitori a perdere (cartone) per non ri-perdere la radice o le radici della "forma"; se la forma poi scompare....

Gentile rida corpo ad un altro corpo; restituisce peso ad un peso che non è piu' funzionale o che si è perduto.

Egli è testimone e ci fa testimoni di un disseppellimento della memoria attraverso lo sguardo; lo sguardo "strabico"

e traditore della pittura.





Archeologia Industriale – Sala espositiva di Artantide.com                                                                        Marika Vicari

7 Aprile – 4 Maggio 2008


L'artista veronese Gianfranco Gentile (1949) introduce con questa sua nuova personale dal titolo Archeologia industriale, un interessante progetto perfettamente rappresentativo dell'estetica della sparizione. Ci sono molti modi di “sparire”. Paul Virilio parlerebbe dello sparire nelle reti, che riguarda tutti ed equivale ad un volatilizzarsi.

La sparizione che si determina nei lavori di Gentile descrive la forma di metamorfosi: un'apparizione-sparizione.

Si tratta di una catena di forme che si riconvertono e si muovono le une verso le altre. La forma artistica da lui cercata e poi scelta è una forma di metamorfosi del materiale: il cartone (materiale a perdere) dove da vita attraverso pastelli e tecniche miste (ossidi, vernici, cemento, catrame, olii riportati a "secco") a un'archeologia industriale segnata dalla riproduzione decontestualizzata di reperti ferrosi, brani meccanici abbandonati al tempo e riscoperti in un'appassionata ricerca sul territorio. La sua è una cultura del frammento, attraverso lo studio dei singoli pezzi o di elementi composti, Gianfranco Gentile da vita ad un dialogo volutamente spezzato sull'esercizio delle differenze: dare corpo e forma a qualcosa che convenzionalmente non è più funzionale e quindi già perso.






L'archeologia industriale di Gianfranco Gentile                                                                                     Alice Zamberlan


L'archeologia industriale di Gianfranco Gentile è un'operazione di recupero complessa perché globale.
Il suo lavoro va a riscoprire elementi iconografici di un passato cronologicamente non così distante dal nostro presente, eppure già oggetto di “scavo”.
Senza dilungarsi troppo in ragionamenti sul significato e l'importanza del macchinario industriale per la società e l'arte del secolo precedente, conviene fermare la nostra attenzione concretamente sulle opere di Gentile.
I suoi pannelli, dalle forme non standardizzate, ma imperfette ed eccessive, offrono allo spettatore lo spettacolo della tecnologia della macchina.
Parti e componenti meccanici non solo raffigurati, ma indagati con lenticolare precisione, dettaglio per dettaglio, grazie ad una sorprendente abilità nel uso del colore a pastello, in grado di esaltare sia il freddo grigio dell'acciaio e del ferro, sia il rosso aranciato della ruggine, senza mai darci la percezione di una monocromia.
Tutto è vivo grazie ai netti contrasti di luce ed ombra, che definiscono la profondità dei macchinari, in un gioco illusorio ancora più intrigante proprio per che vicino all'iperrealismo.
Linee, dettagli, viti, bulloni, ingranaggi emergono nitidamente dalla struttura della macchina.
I punti di vista ravvicinati e parziali, frammentano gli oggetti e li rendono non più totalmente riconoscibili, ma soltanto intuibili, come se l'artista volesse, consapevolmente, non rappresentare, ma evocare, attraverso pezzi di un passato decontestualizzato, riciclato, un nuovo mondo futuribile.
La perfetta omogeneità del supporto completa e rende ancor più significante l'intento dell'operazione. Le righe parallele del cartone, con la loro tangibile tridimensionalità, fanno da controcanto all'immaginaria concretezza del soggetto dipinto.
Il colore uniforme ed etereo dello sfondo ricorda un paesaggio lunare, un oceano di silenzio, in cui fluttuano relitti vuoti, giganti metallici, un po' come la danza delle astronavi nel film “2001 Odissea nello spazio”.
Idoli venerati da una civiltà ormai conclusa, ma fatta rivivere da questo artista che sfronda l'eco del passato dall'esaltazione modernista della potenza della macchina, lasciando però intatta la bellezza del congegno, delle linee, della forma.




 

L'artista è la mano che toccando questo o quel tasto (la forma) fa vibrare l'anima.

Kandinsky


Posando lo sguardo sulle opere di questo nuovo ciclo di Gianfranco Gentile, si viene catapultati in una atmosfera altra, in un luogo senza spazio né tempo in cui si respira a pieni polmoni il fascino del mito.

Sembra quasi di trovare un rifugio dalla confusione, dal rumore e dal movimento e chiudendosi una porta alle spalle poter godere della pulizia, del silenzio, della calma e della rasserenazione.

L'etimologia del termine “mito” (dal greco mythos, racconto) rimanda al significato di una narrazione che in questo caso però non avverte più come necessario il racconto per intero,  ma ne sottolinea, attraverso la pittura,  soltanto un istante che lega generazioni e popoli nel tempo e nello spazio.

Burke nel 1971 affermava che il processo del mito poteva offrire non solo un paradigma provvisorio ma un'approssimazione alla totalità. E' in grado cioè di avvicinarsi ad un qualcosa di assoluto e inconfutabile per tutti. Le idee di grazia, proporzione e armonia coinvolgono lo spettatore senza la necessità di una spiegazione, senza sapere chi è il protagonista del quadro e quali eroiche gesta egli abbia compiuto. La serenità della percezione è immediata e nella storia dell'uomo e dell'arte è un'esigenza ricorrente.

Nel XVIII secolo dopo gli arabeschi barocchi e le orge stilistiche rococò si sviluppa non a caso il neoclassicismo: il riflesso di un bisogno di recupero delle tradizioni, dell'arte antica, della pulizia, della regola ariosa e armonica della figura quella che per Winckelmann era la vera arte, greca, per cui "l'unica via per divenire grandi e, se possibile, inimitabili, è l'imitazione degli antichi".

Nel ciclo di Gianfranco Gentile più che imitazione degli antichi c'è un'affascinante evocazione.

La struttura è completamente diversa, il suo lavoro è ben inserito nelle sperimentazioni contemporanee, l'arte greca è citata ma non riproposta. L'artista è stato capace di fondere l'arte antica classica con le ricerche artistiche attuali.

La tecnica utilizzata è molto particolare ed è unica nel suo genere. Gentile utilizza cartoni con anima ondulata, disegna a pastello le figure che intende rappresentare sulla superficie liscia e successivamente, attraverso un paziente e  minuzioso procedimento, fa emergere le onde del cartone nello spazio esterno alla figura creando così un curioso effetto tridimensionale.

La tecnica è rigorosa, di precisione e molto raffinata; perfettamente in linea con la rappresentazione greca, sempre alla ricerca della perfetta armonia ma il supporto scelto dall'artista crea un fascino particolare, del tutto nuovo.

Il cartone, materiale povero per eccellenza, diventa la base per realizzare opere molto eleganti e ricercate creando un'ambivalenza di significati artisticamente interessante.

Nella storia del mito Levi Strauss individuava una duplice componente spiegando come il successo della comprensione delle storie eroiche fosse dovuto alla presenza distinta di buono e cattivo, di bene e male: allo stesso modo il povero e il ricco, il semplice e il raffinato vengono  presentati nelle opere di Gentile in un connubio sereno e perfetto che rimanda anche ai giochi di luci e ombre, di pieni e vuoti, elementi fondamentali nella scultura greca.

La grazia e la bellezza di Venere che accarezza una mela vengono se possibile risaltate dal colore sincero del cartone che sembra incorniciarle di naturale semplicità, Antinoo, simbolo della pederastia greca viene rappresentato solo in viso, pulito, lucente e bellissimo, le due grazie sembrano aver scordato la loro origine scultorea e prendono vita sulla superficie presentandosi nella loro ingenuità e inconsapevolezza. E' incredibile come il cartone e la mano dell'artista riescano a rendere la sensualità di Afrodite accovacciata, le forme morbide dei fianchi e la luce che sfiora il ventre sono disegnate in modo realistico, sembra una foto rubata alla dea. La parte di cartone scoperta appare come una superficie fluttuante, il sipario ideale per i capelli vibranti di Afrodite.

La fanciulla che suona sembra produrre silenzio dal suo flauto magico, Ermes è lì, sicuro e possente, definito in ogni singolo ricciolo, Diadumeno è poesia ed Efebo rivela la sensualità eterna, e l'armonia perfetta delle forme.

L'artista è stato capace di scegliere delle “inquadrature” molto particolari per i protagonisti scultorei: la visione ricorda quella di un obiettivo fotografico, che sceglie di risaltare alcune parti piuttosto di altre e che talvolta applica con talento uno zoom per tradurre in arte il risalto di una forma.

L'arte è una delle principali espressioni tipicamente umane: l'uomo è composto da corpo e spirito e così anche l'arte possiede una forza materiale in quanto opera visibile e un senso più intimo relativo alle percezioni che ogni fruitore assorbe e riconosce.

E' meraviglioso come il legame tra visibile e spirituale che si nota nel ciclo di opere di Gianfranco Gentile sia così esplicito. In un epoca in cui lo smarrimento delle certezze, la perplessità nei confronti del futuro, la difficoltà a percepire sensazioni e sentimenti forti sono alla base della critica artistica, i lavori di Gentile permettono di rilassarsi, di assaporare un'atmosfera creativa senza dietrologie ricercate. L'arte diventa una sorta di compensazione dalle fatiche che attraverso la parte materiale dialoga direttamente con lo spirituale.

I colori sono neutri, il cartone è presentato senza nessun inganno, i disegni non nascondono significati reconditi, sono il recupero di una bellezza riconosciuta come eterna che con la sua semplice verità non perde ma anzi valorizza la raffinatezza dell'insieme.

L'osservazione di questo tipo di opere presuppone un processo conoscitivo in evoluzione.

Ad un primo approccio sembra di osservare delle vere e proprio sculture, fatto esaltato anche dalle dimensioni piuttosto imponenti dei lavori. Avvicinandosi si mette a fuoco il disegno, si riesce a valorizzarne la plasticità, le linee pulite e la bravura della mano dell'artista ma solo in un terzo momento si giunge alla scoperta di  un supporto così originale come il cartone, e nasce una naturale curiosità sulla tecnica ideata dell'artista. Allontanandosi e riosservando le opere queste assumono un significato del tutto diverso, completo e onnisciente arricchito dalla consapevolezza di un'opera contemporanea, che conosce le diverse fasi dell'arte nella storia e che ne rielabora una visione nuova.

Traspare sicuramente un senso di pudore arricchito dall'impressione di un ordine vitale che si fa atmosfera eroica di altri tempi. La scelta di arredare un locale con questo tipo di opere è sicuramente appropriata: esprimono perfettamente l'idea del rifugio e riescono ad interpretare un luogo lontano dal caos reale nel quale tutti possono estraniarsi e godere di un'atmosfera privata e preziosa.

Spesso l'arte contemporanea è associata all'incomprensibile e all'ingannevole e il disegnare è spesso correlato ad un tipo di arte passata e superata. Gianfranco Gentile ha saputo rispondere in modo piuttosto determinato: il rigorismo tecnico, il disegno, l'armonia delle proporzioni, lo studio della luce e l'attenzione per il dettaglio fanno di lui un artista indubbiamente capace e talentuoso e al contempo la sua arte capace di presentarsi in una nuova ottica, su un supporto originale, è sicuramente un riflesso della contemporaneità.

L'artista non si è limitato però a mostrare la sua abilità stilistica ma ha saputo coniugarla con idee nuove e attuali attraverso un materiale particolare capace di esaltare a sorpresa i suoi delicati disegni. L'arte procede qui secondo un processo di intuizioni immediate.

Il termine “mito” oggi è abusato e limitato di molto rispetto alla sua concezione storica originaria: si definiscono mitiche molte situazioni superficiali e si tende a “mitizzare” banalità o personaggi televisivi. Gentile rende onore invece all'etimologia antica del termine evocando storie e favole di atmosfere eroiche, si ristabilisce il senso di vigore classico, i personaggi sono presenze serene che accompagnano in un mondo magico, aggraziato e fluido molto lontano.


                                                                                                                                         






IL FASCINO DISCRETO DELLA CIVILTA’ DELLE MACCHINE

                                                                                                               

Vi può capitare d’incontrare Gianfranco Gentile, artista a 360 gradi - musicista, pittore, architetto, poeta, grafico - in veste di cercatore di tesori. Con un ginocchio appoggiato sugli sterpi, chino a fotografare reperti che per lui hanno un valore unico: vecchie macchine agricole abbandonate,  trattori e trebbiatrici che coi loro rugginosi musi sembrano sorridere al novello Indiana Jones, motori che han smesso di funzionare, carcasse d’auto scrostate e polverose, accatastate l’una sull’altra dagli sfasciacarrozze, ma anche veri e propri gioielli d’automobili del tempo che fu, come la mitica Rosengart, la cui allure da vecchia e gloriosa signora della corsa è fuori discussione. Metalli come il ferro o il rame e le loro fascinose patine d’ossidazione sono, agli occhi di quest’artista innamorato dell’archeologia industriale, materiali preziosi, ormai rari, come animali in via d’estinzione che gli sia dato d’incontrare – per pura fortuna – in un safari fotografico, dopo averli a lungo cercati e inseguiti. Vecchi marchingegni, rubinetti industriali, condutture e ruote dentate, congegni obsoleti e velati dalla patina del tempo, fabbriche dismesse, cartiere abbandonate assumono un valore memoriale pari a quello di un frontone greco, di una statua romana, di un rosone intagliato, di un pinnacolo o di altro elaborato fastigio d’una magnifica cattedrale gotica.

La meraviglia sta nello sguardo di chi osserva, nel filtro della memoria con cui ci si accosta a pezzi che racchiudono una parte della nostra storia, tradizione e cultura materiale, di un passato più o meno remoto o vicino a noi, iscritto nella nostra stessa identità.

Le opere di Gentile evocano un intero universo perduto. L’abbandono di miriadi di “pezzi” appartenenti al mondo della fabbrica o del lavoro dei campi, la loro obsolescenza, il mancato utilizzo odierno non riescono – ai suoi occhi e, per suo tramite, anche ai nostri - ad appannarne l’attrattiva, anzi la accrescono. Neppure l’oblio del nome di questi attrezzi e componenti meccanici e il mancato riconoscimento della loro funzione (un tempo invece nota a tutti gli appartenenti al mondo del lavoro), neanche l’aver cancellato dal linguaggio corrente i termini lessicali che li designano e l’aver condannato queste apparecchiature al silenzio e all’inattività bastano a distruggere il fascino discreto della civiltà delle macchine. Né a tacitare l’eco del rumore delle prime fabbriche, in cui la tecnica – guardata allora con un misto di sospetto e ammirazione – non aveva ancora mostrato in tutta la sua estensione il volto disumano di una completa signoria e di un dominio insopprimibile sul “fattore umano”, il suo essere non un mezzo ma un fine in se stessa, mirata al proprio incessante autopotenziamento.

Guardando le opere di Gianfranco Gentile viene alla mente la fase dell’industrializzazione tardo-ottocentesca  e primo-novecentesca, la “civiltà delle macchine” della metà del XX secolo, e si è presi da un’attrazione per qualcosa che ha il sapore di un’operazione nostalgia, legata ad una perdita senza possibilità di un a rebour. Agli antipodi rispetto all'esaltazione modernista della potenza della macchina, l’artista si concentra sulla valenza estetica degli apparati tecnici del passato, lasciando emergere la sensualità latente dell’ingranaggio (si pensi all’opera intitolata Labbra cremisi, denti d’acciaio), la bellezza intrinseca delle macchine, e – attraverso l’irresistibile attrattiva del dettaglio messo a fuoco da un’ottica lenticolare – riporta alla luce il potere seduttivo esercitato da una meccanizzazione ancora controllata dall’uomo in un’epoca non così remota, eppure irrimediabilmente trascorsa, in cui era ancora la mano dell’operaio a mettere in moto le macchine, manovrare gli strumenti, abbassare leve, girare rubinetti, avvitare bulloni, ruotare manovelle, premere interruttori, verificare i materiali.

Ciò che attrae nelle opere di Gianfranco Gentile è anche la loro peculiarità tecnica, la sorpresa generata dall’utilizzo di materiali poveri e leggeri per ricavarne effetti di grande realismo. Il metodo di lavoro è originale e richiede virtù d’ascendenza certosina: le opere sono infatti disegnate su comune cartone ondulato da imballo, dipinte a mano sulla superficie liscia con pastelli e tecniche miste (ossidi, vernici, cemento, catrame, oli riportati a "secco"), poi intagliate con il cutter nelle parti non dipinte, in modo che affiori lo strato di onduline sottostante e che il contorno del congegno raffigurato emerga con straordinaria potenza ed effetto di tridimensionalità dallo sfondo. Si attua così una sorta di camouflage o metamorfosi del mezzo: il fragile e deperibile cartone assume le sembianze del ferro, ne simula le caratteristiche di corrosione e ruggine, a fronte dell’usura del tempo e delle ingiurie delle intemperie; il colore a pastello ripropone il cromatismo sommesso e pacato delle vernici scrostate e sbiadite; la rigatura verticale del supporto, con la sua ondulata profondità, allude alla tridimensionalità concreta dell’oggetto raffigurato.

Si tratta di un’operazione sottile di segno analitico che non va a sostituirsi al compito dell’archeologia industriale, che non sottende il recupero dei reperti materiali (al più ne auspica la salvaguardia, demandata a chi la può attuare), ma ne ripropone le immagini come icone della modernità, al pari delle Marilyn e delle Campbell Soup di Warhol o delle lucidatrici di Jeff Koons, ma di una modernità di ieri, pre-contemporanea. Come su un tavolo anatomico, la macchina o l’architettura dismessa è dissezionata dall’occhio selettivo dell’artista in un inventario minuzioso di elementi – ombre e luci comprese - ciascuno dei quali ha una bellezza intrinseca e nel contempo partecipa al fascino dell’insieme. Vengono così proiettati in primo piano, accanto ad intere strutture industriali – come capannoni e fabbricati industriali, cartiere e stazioni frigorifere realmente esistite – dentelli, viti, bulloni, tubi, ghiere, bielle, giunti: particolari talvolta minuscoli ingigantiti dallo zoom del ricordo e di uno sguardo curioso e attento, piuttosto che da quello delle fotografie digitali che l’autore scatta nella fase di ricerca sul territorio, che precede la realizzazione vera e propria dell’opera.

Più che una poetica del frammento, a guidare l’artista è però la fascinazione dell’insieme, perché – come avevano già avvertito i filosofi, Gunther Anders al pari di Martin Heidegger – non esistono apparecchi singoli. La totalità è il vero apparecchio. Ogni apparecchio è, dal canto suo, solo una parte di apparecchio, solo una vite, un pezzo del sistema degli apparecchi (…). Il sistema di apparecchi è il nostro “mondo”. Anche se decontestualizzato, enfatizzato, il dettaglio rinvia ad un mondo, ad una tecnica percepita come “ambiente” in cui l’uomo si muove, ad un “macroapparecchio” che è il sistema tecnologico che nel suo insieme individua e identifica  un’epoca e condiziona e determina uno stile di vita.

La forza suggestiva delle opere di Gentile evoca dunque un intero mondo della cui bellezza abbiamo forse usufruito inconsapevolmente e che solo nell’arte oggi ci è dato di ritrovare. Ma la scelta dei soggetti raffigurati induce alla riflessione critica sull’ieri e sull’oggi, in vista di un futuro praticabile che non può prescindere dal rapporto tra l’uomo e la tecnica.

                                                                 

                                                                                    Elisabetta Bovo

Giornalista, storica e critica d’arte, Docente di Iconografia, Iconologia e Filosofia dell’immagine






Presentazione Critica (54ª Biennale di Venezia-Padiglione Italia):


Osservare a distanza le opere di Gianfranco Gentile permette la trazione verso di esse. Lo sguardo si adegua a prospettive apparentemente dimentiche, in luoghi abbandonati, in quell’indefinibile avviluppo di forme metalliche, contorte costrizioni, meccanismi, ingranaggi, forze dentate, che  attanagliano in una morsa curiosa, solitudini colte nell’abbandono del tempo. Indomita forza attrattiva, avvinghia lo sguardo  che si accosta al dettaglio. La macchina  rapisce, fa cogliere l’attenzione e provoca una sensazione di  coinvolgimento quasi fantascientifica, irreale condizione che immerge in  spazi  scenografici, lontani dal presente, rivolti a silenti passaggi del tempo. Eppur l’invito si coglie  nei dettagli della materia realizzata e connessa tra segno, soggetto e supporto creante  una valente tensione in un racconto vissuto, tra mutamenti, speranze fatiche delusioni di un mondo trasposto tra sviluppo e tensione, tra futuro e incomprensioni negli eventi passati del sociale. Tuttavia  il silenzio  come poesia soffia aneliti pensieri. Come vele per i naviganti, le fabbriche per  gli operai, il meccanismo per il moto perpetuo del fare e del ricercare consenso nel vero. Si tratta di chiaro messaggio sotteso che  coglie nel piacere dell’arte di Gentile. Consapevole di un vissuto  che vuol essere anche prospero futuro.


Alessandra Lucia Coruzzi